- Ho trovato l’eredità un testo che ci sprofonda in un’attualità fatta di un’incomunicabilità famigliare che vestiamo di amore; amore che si nutre e si spegne nel bisogno di accudirsi e violentarsi. Ho dato una chiave corretta all’opera?
Se nell’accezione comune la famiglia viene naturalmente concepita come baluardo di sicurezza – l’espressione “tornare a casa” ne esprime tutto il senso – al tempo stesso può trasformarsi in una sorta di “gabbia in cui le dinamiche relazionali sono compromesse dall’incapacità della famiglia – paradigma di una società ancora profondamente patriarcale – di adeguarsi ai mutamenti generazionali, epocali, culturali, di accettare le diversità ideologiche, esistenziali, sessuali, religiose; tali dinamiche non possono che tradursi nella difficoltà di comunicare spingendo gli uni e gli altri inevitabilmente allo scontro: inaccettabile, da mettere a tacere in una società costruita sul piano del socialmente corretto, che si nutre delle apparenze, di vanità, di pregiudizi. Lei parla di “incomunicabilità familiare che vestiamo d’amore”. Ha ragione. Anche se mi domando se questo sentimento possiamo definirlo “amore”. Non dico che non lo sia, ma piuttosto qualcosa di diverso che passa sotto il nome di amore, qualcosa che si ha nel sangue e che distingue l’uomo dalla creatura bruta. È una specie di appetito del sangue: per i genitori, quando un figlio nasce, fanno il possibile per ritrovare quel qualcosa di intimamente loro che hanno perso mettendolo alla luce; per un figlio, si traduce in un sentimento di appartenenza, nella necessità di essere accuditi: da qui, i “sensi di colpa” che si contrappongono alla ribellione, allo sconforto del sentirsi in gabbia.
- Il rapporto padre-figlio nel testo è un conflitto atavico che non sembra fornire vie d’uscita; c’è qualcosa che i padri o i figli, a suo parere, possono fare per riavvicinare i due mondi?
Un figlio è un prolungamento di sé stessi, come lo è un braccio o una gamba. Quando nasce, la prima cosa che si cerca è la somiglianza all’uno o all’altro dei genitori. Proiettiamo nel figlio le speranze, il futuro in cui vederlo realizzato, sebbene quello che desideriamo di meglio per lui può non essere ciò che vorrebbe per essere felice. Si pone allora la questione: l’io-genitore che l’ha generato è più “sacro” dell’io-figlio-che è stato generato? Non a mio parere. Penso profondamente che un figlio non appartiene ai suoi genitori, ma alla vita, perché attraverso lui è la vita che genera sé stessa. Il compito di un genitore è di proteggere e accompagnare il figlio alla ricerca della sua felicità, ovunque essa si trovi: la felicità spirituale, intendo, non materiale, quest’ultima – nella società in cui viviamo – che predomina, se non addirittura soppianta, la prima.
- Come vede il rapporto tra teatro e intelligenza artificiale? Sono due mondi così distanti?
Penso che qualsiasi cosa può avere un valore drammaturgico se utilizzata in modo opportuno; se questo è vero per un oggetto di scena, credo che possa averlo anche l’intelligenza artificiale.
- Cosa lo ha spinto ad aderire alla proposta contenuta nella Rassegna del “Canotto parlante”
Prima ancora di avere la possibilità – la fortuna – di vedere la propria opera messa in scena, credo sia fortemente utile per un autore di partecipare ai concorsi dedicati al Teatro; attraverso il confronto con altri autori e la valutazione di una giuria, può farsi un’idea del proprio livello di crescita artistica.