Una sera in una casa borghese, un po’decaduta del centro di Palermo. Una madre,
un figlio e una figlia si ritrovano a dover disfare gli addobbi natalizi affrontando la
routine del post-Natale e, come ogni anno, puntualmente il padre Alfonso, fa ritorno
dai suoi lunghi viaggi in giro per il mondo. Sempre quando le feste sono ormai finite.
Probabilmente il solito racconto di un anno colmo di rievocazioni, ricordi, sensazioni
per cercare di ritrovare, almeno in una giornata, il senso dell’importanza della
tradizione e del calore famigliari.
Ma ormai quelle rievocazioni nascondono frustrazioni, quei ricordi mutano in
lacerazioni e le sensazioni diventano delusioni a lungo sopite capaci di mostrarsi nel
rancore e nella rabbia; sentimenti che sedimentano nell’assenza prolungata e
ripetuta.
La voglia di cambiare rotta al destino, di provare a vedere un futuro diverso sembra
quasi essere affidata all’apertura di una nuova pasticceria sotto casa e alle delizie di
Alfonso, l’omonimo presente, forse destinato a prendere il posto di quello originale.
E invece è il cambiamento che sorge dalla forza del desiderio di verità; quello che si
manifesta nel talento artistico di Ethan (figlio), o nell’esplosione di maturità di
Aurora (figlia), o nel coraggio delle scelte di Adele (madre) a prevalere nella sera
delle confessioni, quando la ricerca della libertà individuale in una famiglia, trova
casa solo attraverso il liberarsi dalle ombre e dei fantasmi vissuti, o probabilmente
soltanto immaginati, del passato.
Babà al Rum, conclusione della trilogia “Dolci apparenze” di Claudio Nicolini è un
elogio alla verosimiglianza del teatro di Edoardo, alla trappola dei personaggi
pirandelliana, è un omaggio, soprattutto, ad una terra, la Sicilia, che sa essere
contemporanea come una fiaba che non perde mai il fascino della sorpresa del
disvelamento finale.